C’è stato un momento, durato poco in verità, in cui sembrava che la vetro resina (più tecnicamente definita PRFV, poliestere rinforzato con fibra di vetro) potesse concorrere per il secondo posto nella lista.
C’è poi un altro materiale, che per quasi vent’anni è stato un po’ la cenerentola dell’enologia italiana: il caro vecchio cemento.
Passato dal comporre, dalla fine del 19esimo secolo e poi soprattutto negli anni ’50 e ’60 del Novecento, la buona parte delle cantine del nostro Paese - anche strutturalmente, nel senso che le botti erano spesso inglobate nelle mura delle tinaie - ha poi subito il contraccolpo di materiali moderni: la meteora della vetroresina, e infine l’acciaio, che ha scalzato il cemento dal mercato dei serbatoi per vino.
Ora si assiste a un suo ritorno, all’inizio in punta di piedi e via via sempre più innegabile, grazie alle sue prestazioni: alcune ben note agli addetti ai lavori, altre nuove e non ancora verificate.
Il suo ritorno in auge è bene esemplificato dal successo che questo comparto sta avendo all’interno di un’azienda italiana che ha fatto la storia delle botti in cemento: la Nico Velo Spa di Fontaniva, in provincia di Padova.
La Nico Velo, dopo essere stata la prima in Europa a produrre questi serbatoi su scala industriale, nel 1950, aveva progressivamente accantonato il settore vitivinicolo, dedicandosi, a partire dalla metà degli anni Sessanta, alla costruzione di capannoni industriali, comparto che tuttora rappresenta la voce di bilancio maggiore dell’azienda.
Tuttavia, nonostante l’apparente obsolescenza di questo materiale, l’amministrazione non ha voluto abbandonare del tutto le botti in cemento, mantenendone una piccola produzione, che fino a tre anni corrispondeva a un misero 5% dell’intero fatturato aziendale.
Il trend positivo di cui stiamo parlando ha portato nell’ultimo triennio a un balzo significativo, che ha innalzato la produzione di serbatoi vinicoli al 20% del bilancio annuale 2013, corrispondente ad una cifra intorno ai 2,5 milioni di euro.
Qualcosa è cambiato dunque, “perché si è rivisto il sistema di produzione del vino, è cambiata la logica” secondo Paolo Velo, nipote del fondatore dell’azienda e responsabile della produzione dei tank in calcestruzzo armato.
Fino agli anni ’70, c’erano altri nove cantieri a Fontaniva che producevano ed esportavano in Europa botti in cemento. Come mai proprio lì? Grazie alla disponibilità naturale e in grande quantità dei cosiddetti “inerti del Brenta”.
Gli inerti o aggregati sono una larga categoria di “materiali minerali granulari, particellari, grezzi, usati nelle costruzioni. Possono essere naturali, artificiali o riciclati da materiali in precedenza usati nelle costruzioni. Gli aggregati comprendono in via esemplificativa: sabbia, ghiaia, argilla espansa, vermiculite e perlite. Sono utilizzati in edilizia, principalmente come componenti, ad esempio, dei conglomerati cementizi” (fonte www.enco journal.com).
Gli inerti del Brenta, grazie alla elevata capacità di cristallizzazione, favoriscono la produzione di un impasto cementizio molto buono.
All’epoca quindi, l’alta qualità della materia prima consentiva di competere bene sul peso, fattore fondamentale al momento del trasporto; la Nico Velo poteva produrre serbatoi le cui pareti non superavano i 4 centimetri di spessore.
Come già anticipato, negli anni ’80, l’acciaio spodesta il cemento. Ma non in Francia, dove questo materiale non ha mai subito un vero e proprio tramonto, forse per le differenti logiche produttive che hanno caratterizzato questo Paese: “I francesi - dice ancora Paolo Velo – hanno sempre lasciato passare almeno due anni prima della messa in commercio del vino. Questo poneva loro dei problemi di stoccaggio. Invece in Italia, per un lungo periodo, ha predominato la logica del consumo immediato, quindi l’acciaio andava bene in ogni caso”. La Nico Velo ha dunque continuato a produrre botti avendo come mercato di riferimento solo quello francese: tuttora l’80% del fatturato di questo comparto aziendale è dovuto a commesse d’Oltralpe.
Un piccolo mito da sfatare è l’economicità del cemento, rispetto all’acciaio. I margini si sono ridotti considerevolmente negli ultimi anni, tanto più che la produzione industriale del cemento consente una meccanizzazione piuttosto limitata: larga parte dei passaggi produttivi sono ancora manuali; infatti, il completamento di una piccola botte richiede mediamente una settimana di lavoro da parte di un team di operai specializzati. Inoltre sul prezzo finale incidono ancora molto i costi di trasporto.
Uno dei grandi punti a sfavore delle botti in cemento, che aveva largamente determinato il suo abbandono da parte dei produttori, era quello del rivestimento interno. All’epoca le resine interne davano problemi igienici, di cessioni e di tenuta nel tempo.
Questo introduce uno dei grandi temi riguardanti la tecnologia di questi contenitori, che ci vede ancora una volta contrapposti ai cugini francesi.
Va detto innanzitutto che la parte del leone nel marketing internazionale delle botti in cemento l’ha giocata la Nomblot, storica azienda francese fondata nel 1922. Suo il merito di avere generato un nuovo e forte interesse intorno al cemento, e anche quello di avere creato l’ormai celebre “forma a uovo” – all’estero queste botti sono conosciute come “concrete eggs”. La Nomblot ha tolto le botti di cemento dall’angolo dello stoccaggio, per re immetterle a pieno titolo nella categoria dei serbatoi atti alla fermentazione così come avveniva in passato.
La grande differenza tra le due aziende in questione risiede proprio nel rivestimento interno: in Italia, dove la normativa prevede il rivestimento tramite resina epossidica, la Nico Velo commercia botti verniciate, mentre la gran parte di quelle destinate ai Paesi esteri sono senza rivestimento, invece la Nomblot tratta prevalentemente botti non rivestite in “cemento naturale”.
Quest’ultimo fattore è stato determinante per l’adozione di dette botti da parte dei produttori di vini biodinamici, secondo i quali la “forma a uovo” (il paragone con le anfore non è casuale) favorirebbe la cinesi del mosto, inoltre il cemento non rivestito consentirebbe una microssigenazione migliore, e un parziale assorbimento del calore, riducendo il rischio di ridotto e lasciando inalterata l’acidità.
Il condizionale è d’obbligo, perché non risultano studi scientifici a validare queste affermazioni. L’assenza di dati che siano forniti da istituti di ricerca ufficiali è, in effetti, una delle caratteristiche più evidenti del tema: la riscoperta di questo materiale è esclusivamente basata su esperienze pratiche e considerazioni teoriche ma non su dati sperimentali validati scientificamente. Secondo Danilo Drocco, enologo di Fontanafredda – tra le principali committenti italiane di Nico Velo – la ragione di questo disinteresse risiede nell’anzianità del materiale. Non si tratta cioè di un prodotto nuovo, sconosciuto al mercato, bensì di un materiale storico, dimenticato per un po’, ma da sempre presente nelle nostre cantine e negli ultimi decenni rivalutato anche per il favore a lui tributato da parte di enologi famosi, primo fra tutti Giacomo Tachis.
Nel tentativo di rimediare a questo vuoto, la Nico Velo aveva cercato di avviare qualche anno fa una collaborazione con l’Università di Pisa, naufragata purtroppo a causa di numerose difficoltà tecniche e burocratiche, che hanno poi spinto l’azienda a rivolgersi alla Giotto Consulting, azienda trevigiana di consulenza enologica che dispone di un laboratorio di analisi all’avanguardia. Da un anno e mezzo è quindi stata attivata una sperimentazione presso l’Azienda Agricola Corte Sant’Alda, a Mezzane di Sotto, in provincia di Verona. In merito al progetto, Federico Giotto, titolare del laboratorio, dice:
“La nostra ricerca si è concentrata in un primo momento a valutare le differenze tra cemento naturale passivizzato con acido tartarico, cemento vetrificato, acciaio e legno. In questa prova sono state valutate le possibili cessioni da parte del cemento naturale di tutti i metalli mediante determinazione con ICP massa. Oltre a questo, abbiamo valutato l’evoluzione dei vini attraverso i parametri classici, anche quello dell’ossigeno disciolto, per verificare possibili fenomeni di microssigenazione. La nostra ricerca ora si è concentrata nello studio di diverse tipologie di materiali e la corretta modalità di passivazione con acido tartarico delle vasche in cemento. La ricerca sarà completata per fine anno. I dati riscontrati sono di proprietà della Velo Spa, unica azienda finora a fare delle ricerche approfondite in questo senso”.
Dunque, in attesa di una Teoria scientifica definitiva, è il Diritto ad essere dirimente: in Italia le Asl pretendono la resina epossidica, in Francia invece è contemplato anche il trattamento tramite acido tartarico. La vecchia maniera di fare il “trattamento” è nota: siccome avveniva sul posto, le vasche erano riempite di vino di bassa qualità, che era lasciato lì fino a che le pareti non si impregnavano. Insomma, un po’ quella che Emidio Pepe chiama la “racia”: “Lu vino non va bene nelle botti d’acciaio, ci sta male, per isolarsi dall’acciaio si spoglia. Al primo travaso si leva la giacca, poi la camicia, poi resta nudo. Nella botte di cemento si forma uno strato racioso, che resta e fa la casa al vino. Lu vino è nu figlio che nun parla e nun strilla, bisogna saperlo ascoltare. Il vetro poi è l’habitat naturale, la casa justa, il vino è un essere vivente, dalla parte della luce fa lo strato scuro, la racia, è questa che lo protegge.” Fonte: www.acqua-buona.it.
Abbiamo chiesto ancora a Danilo Drocco cosa pensasse della controversia sui rivestimenti interni. E’ il caso di ricordare che Fontanafredda dispone, sin dal lontano 1858, di serbatoi in cemento che già all’epoca erano rivestiti con piastrelle di vetro.
“Se acquistare una vasca in cemento non trattato significa farne poi la manutenzione ogni tre anni – sostiene Drocco tanto vale acquistarla rivestita in maniera permanente. Io non userei mai una vasca non resinata, poiché è indiscutibile che una botte rivestita sia meglio sanitizzabile”.
Infatti, la cantina di Borgogno, recente acquisizione nell’orbita Farinetti, è stata fornita in esclusiva con botti di cemento rivestite: 12 vasche da 100 ettolitri, dotate di un sistema di raffreddamento a tubazioni di liquido refrigerante. La possibilità di controllare meglio la temperatura ha conferito una versatilità prima sconosciuta alle vasche in cemento, sempre più utilizzate per la fermentazione, anche dei vini giovani.
A Fontanafredda la fermentazione del Barolo avviene da sempre in vasche di cemento poiché, a differenza dei tank in acciaio, questi vecchi contenitori non disperdono calore ed è quindi possibile mantenere una temperatura media in fase di fermentazione leggermente più alta. In fase di macerazione la stabilità della temperatura favorisce l’estrazione e l’evoluzione di strutture tanniche più complesse.
Il cemento dunque, in quanto cattivo conduttore, è anche perfetto – sempre secondo Drocco – per la malolattica, perché mantiene stabile la temperatura a circa 21° per 15 20 giorni. Infine, ma questo è già stato detto, l’azienda di Serralunga impiega questo materiale da sempre per l’affinamento, successivo al passaggio in legno, proprio perché il vino vi subisce meno vibrazioni, meno sbalzi di calore, minore ossigenazione. Su quest’ultimo punto, l’ossigenazione, occorre insistere ancora, poiché vi sono visioni davvero differenti dell’effetto cemento. Mentre Drocco sostiene che non vi è alcun aumento della microssigenazione – o almeno, non è quello l’effetto ricercato dall’enologo di Fontanafredda
– dall’altra parte del mondo, in Sudafrica, c’è chi lo considera una valida alternativa al legno. E’ quanto sostenuto da Eben Sadie, di The Sadie Family, guru della Swartland Revolution e tra i principali sostenitori del cemento non trattato: “Cercavo un materiale che fosse alternativo al legno, ma che consentisse comunque al vino di respirare, e che non gli conferisse sapore di legno, poiché esso non fa parte del terroir. Il cemento consente un alto livello di purezza nell’espressione del luogo”. (Fonte: www.winewisdom.com, traduzione dell’autrice)
Il tema della ossigenazione si collega direttamente a quello della forma, che è poi stato anche uno dei principali motivi del successo delle “uova” Nomblot.
I produttori che utilizzano le concrete eggs sostengono che la forma sia responsabile di moti convettivi più uniformi. Dalle colonne del blog di Sally Easton MW, riportiamo le parole di Gilles Lapalus, proprietario di Sutton Grange Winery e primo importatore in Australia delle botti Nomblot: “Grazie a questa forma non ci sono angoli morti, ne consegue una migliore uniformità nella composizione del liquido, soprattutto dal punto di vista della temperatura. Le caratteristiche cinetiche della fermentazione sembrano più regolari”. (Fonte: www.winewisdom.com, traduzione dell’autrice)
Per quanto riguarda le botti italiane, l’opinione di Paolo Velo è schietta: “Le prime botti, negli anni Cinquanta, erano di forma cilindrica con il fondo bombato. Successivamente, quando l’impiego è virato allo stoccaggio, è nettamente prevalsa la forma quadrangolare, a parallelepipedo”, soprattutto per una questione di economia degli spazi.
Accortasi della rinnovata attenzione nei confronti del materiale, ma soprattutto dello spostamento dell’asse di interesse - non più, o non solo, botti da stoccaggio, ma anche da fermentazione - l’azienda ha intrapreso una fase di ricerca e sviluppo di nuove botti, dalle forme più arrotondate.
Sono nate così le botti, dalle troncopiramidali alle tulipes troncoconiche, che ora compongono le tinaie di importanti aziende italiane abbiamo già parlato di Borgogno in Piemonte, ma ci sono anche Querciabella in Toscana, Musella in Veneto e internazionali: Château Prieuré Lichine, Cheval Blanc, Chapoutier – ebbene sì: proprio la principale fautrice del successo della Nomblot, in seguito al “divorzio” da questa, si rivolge dal 2009 in esclusiva alla Nico Velo Spa – solo per citarne alcune.
Poco cambia, sostiene Paolo Velo, nelle forme interne, che sono pressoché quelle di sempre. La battaglia ormai si gioca sull’estetica, giacché le cantine sono aperte al pubblico e devono essere belle da vedere.
Insomma, molte le interpretazioni, le opinioni, anche controverse, che sono state espresse sul cemento. Segno, questo, del grande interesse che sta creando intorno a sé. L’auspicio è che si faccia chiarezza sui veri pro e contro di questo materiale: vetrificazione tramite resina epossidica o trattamento con acido tartarico? La presunta maggiore microssigenazione è misurabile? La forma arrotondata favorisce i moti convettivi del mosto?
Tutte domande per le quali non c’è ancora una risposta. Nell’attesa non si può fare a meno di notare che anche nel mondo del vino, la comunicazione funziona per inerzia: quando si parla di cemento, scatta immediato il collegamento con Nomblot, la pioneristica azienda francese che è effettivamente stata all’avanguardia nel settore. Eppure, chapeau anche alla nostrana Nico Velo Spa e alle sue botti, che dal 1950 portano lustro all’industria enologica italiana nel mondo.
Tratto da:
Mille Vigne - Il periodico dei viticoltori italiani, vol. 03 / 2014