Chiarifica e filtrazione del vino

Dopo la fermentazione, il vino tende via via a “pulirsi”: le fecce – residuo costituito da parti solide del grappolo, lieviti, tartrati – precipitano lentamente e sedimentano sul fondo dei recipienti in cui è conservato (vasi vinari).
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Una prima, grossolana, causa dell’aspetto torbido del vino potrebbero essere gli scarsi o scorretti travasi che il cantiniere ha effettuato per liberarlo dai sedimenti. C’è da dire che nei vini di qualità, lavorati correttamente, questo rischio non si corre. È più probabile trovare “sporco” il vino “casalingo” del contadino. Lo spontaneo processo di chiarificazione può essere agevolato e rafforzato mediante interventi di tecnica enologica.

La chiarifica è una pratica enologica antichissima, che studi e ricerche relativamente recenti hanno reso razionale. In pratica, all’aggiunta della sostanza chiarificante, nel vino si verifica la formazione di minutissimi flocculi che via via ingrandiscono e precipitano sul fondo del recipiente, trascinando tutti i corpuscoli che si trovano in sospensione. La parte del liquido che sovrasta il deposito precipitato risulta perfettamente limpida e viene separata dal torbido per semplice travaso. Le sostanze chiarificanti possono essere di origine organica o proteica (albumina d’uovo, gelatina, sieroalbumina, caseina ecc.) e inorganica (bentonite, sol di silice ecc.)

Il grado di limpidezza ottenuto con le operazioni di chiarifica può essere perfezionato dalla filtrazione, operazione che consiste nel far passare il vino attraverso strati o membrane porose che hanno lo scopo di trattenere le particelle di torbido eventualmente ancora in sospensione.
Numerosi sono i tipi di filtro utilizzati nella pratica enologica: sgrossatori, brillantatori, sterilizzanti. Essi sono coadiuvati dall’uso di materiali che hanno la proprietà di trattenere le varie sostanze in sospensione: la cellulosa, spesso mescolata con fibre di cotone; la farina fossile, polvere fine e leggerissima costituita dalle spoglie silicee di microscopiche alghe; la perlite, ottenuta dalle rocce vulcaniche finemente macinate e trattate termicamente.

È evidente che queste pratiche di cantina richiedono competenze enologiche e attrezzatura adeguata. Tuttavia la limpidezza, acquistata con il naturale riposo o con la chiarifica, non è necessariamente definitiva: fino a quando non è stabilizzato, il vino è suscettibile di modificazioni e di conseguenza di “rotture” di equilibrio. Sono le cosiddette casses (ossidasiche o chimiche), con le quali si vengono ad alterare il colore e la limpidezza. 

Ma tutto ciò che “volteggia” nel vino è indice di cattiva qualità? Non necessariamente.

Se le particelle perennemente in sospensione (torbidezza) costituiscono, come si è visto, un grave e spesso irrimediabile difetto, gli elementi che sedimentano sul fondo della bottiglia (deposito) sono generalmente tollerabili. Trovate sul fondo di una bottiglia di bianco dei piccoli cristalli? Sono innocue precipitazioni di tartrati e significano che il vino “ha sentito il freddo”.

Un rosso importante con qualche anno di invecchiamento presenta un sedimento polveroso? Sono le sostanze coloranti (tannini e antociani) che per fenomeni chimico-fisici avvenuti durante l’invecchiamento polimerizzano e diventano insolubili. Non pregiudicano affatto la qualità, anzi significano che quel vino, prima di essere imbottigliato, è stato spogliato il meno possibile dei suoi costituenti instabili e ha subìto pochi trattamenti. In certi casi il deposito, anziché raccogliersi sul fondo, aderisce alle pareti della bottiglia (“camicia”). Si tratta di sostanze coloranti idrolizzate ed è, in genere, indice di un vino molto vecchio, vinificato alla “vecchia maniera”. La “camicia” è, invece, assolutamente intollerabile nei vini giovani, appena imbottigliati.
Oggi la tendenza di molti produttori è quella di mettere in commercio vini “finiti”, ovvero senza più sostanze che possano facilmente fermentare e, quindi, provocare deposito.

Una piccola aggiunta di anidride solforosa al momento dell’imbottigliamento neutralizza temporaneamente i fermenti sopravvissuti. Se poi si ricorre alla filtrazione sterile o alla pastorizzazione, ogni residuo microbico è eliminato. In quest’ultimo caso, avremo vini assolutamente limpidi – e stabili nella limpidezza – a scapito, però, della vivezza del vino, che perde senz’altro in aromi e in bouquet. Accettiamo dunque il deposito, segno di un vino ricco, vivo e attivo nel suo invecchiamento. L’importante, ai fini della degustazione, è che i depositi rimangano fermi sul fondo della bottiglia.

Quindi:

  • se la bottiglia è stata conservata coricata, lasciarla in piedi per qualche tempo prima di consumarla;
  • precauzione nello stapparla: niente scossoni;
  • decantare, ovvero travasare delicatamente in caraffa; 
  • conservare il vino in una cantina dalla temperatura abbastanza costante (sui 12°C, con una tolleranza di oscillazione di un paio di gradi in più o in meno). Sotto i 10°C (pensiamo alle temperature invernali che scendono fino allo zero) i vini sentono il freddo: precipitano i tartrati o le sostanze coloranti e non avviene una adeguata maturazione. Sopra i 10°C il caldo provoca l’ingiallimento e la maderizzazione dei bianchi e “risveglia” la flora batterica che può riprendere la propria attività innescando inopportune fermentazioni (se nel vino ci sono residui di zucchero da svolgere o di acido malico da trasformare) o attaccando altre sostanze (come le pentosi, zuccheri non fermentiscibili).